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LI FUOCHI DE LA MADONNA

  Una tradizione assai suggestiva e alla quale i Buonalberghesi sono molto legati è quella de li fuochi che si accendono il 7 settembre, vigilia della natività della Vergine.

Accendere dei falò è un’usanza diffusa in tutto il mondo, cambiano, però, di luogo in luogo, i momenti e le motivazioni. A Casalbore e a Montecalvo, per esempio, i fuochi si innalzano in occasione della festa di San Giuseppe, il 19 marzo; in altre località sono tipici del giorno dell’Assunta, il 15 agosto. A Loreto si dava fuoco alle cataste di legna il 9 dicembre, per illuminare la strada alla Madonna che "viaggiava" nella santa casa di Nazareth. Altrove, l’accensione dei falò si ripete ogni anno il 23 giugno, vigilia di San Giovanni o il 17 gennaio, giorno dedicato a Sant’Antonio abate.

A Buonalbergo, invece, i fuochi sono legati alla festa della Madonna della Macchia.
 

Cercare di risalire al periodo in cui questa tradizione è iniziata è impresa ardua e vacua, così come impossibile, credo, sia spiegare i motivi che l’hanno generata.

Provo, comunque, ad avanzare delle ipotesi. Innanzitutto c’è da riconoscere il carattere religioso che tale usanza avrebbe avuto anche se fosse nata prima dell’avvento di Cristo. Poteva trattarsi di una vera e propria festa al fuoco, elemento sacro, simbolo di vita, a quel fuoco che aveva permesso all’uomo di iniziare il cammino verso la civiltà, che i Romani tenevano sempre acceso nel tempio di Vesta e che oggi nelle chiese cristiane viene benedetto nella notte di Pasqua. Poteva essere un’usanza legata in qualche modo alle pire su cui si bruciavano le vittime, anche umane, per attirasi la benevolenza degli dei o per placarne l’ira. Può trattarsi di una tradizione più recente, nata nel Medioevo, quando di frequente si innalzavano roghi per bruciare eretici e streghe.

Si può pensare anche ad un suo rapporto con il mutare delle stagioni, perché i giorni in cui si incendiano i falò sono vicini agli equinozi e ai solstizi. E’ possibile, infine, che ragioni diverse si siano sovrapposte a quelle originarie.

Più utile mi pare cercare di individuare le caratteristiche odierne dei fuochi. E’ indubbio il loro aspetto religioso, legati come sono, in ogni luogo, alla liturgia cristiana. Essi, quindi, implicano la devozione dei fedeli, i quali purificano attraverso il fuoco la loro anima e i luoghi destinati ad accogliere la divinità che sta per arrivare. Così come è chiaro il loro significato di festa in occasione di un avvenimento lieto. E le feste paesane sono aperte dallo sparo dei fuochi, che hanno il compito di richiamare gli abitanti dei paesi vicini. I fuochi potevano svolgere nel passato questa stessa funzione. Le strade dove si svolge la festa sono oggi illuminate dalle arcate, ma quando non c’era ancora l’energia elettrica potevano i fuochi sopperire a questa necessità.

Ma al di là di tutte queste considerazioni, a me piace ricordare i falò di una volta, di quand’ero ragazzo.

Da molti giorni prima della vigilia della Madonna dalle case non si buttava più neppure il più piccolo pezzo di legno. In un angolo della làmmia si ammassava tutto il materiale combustibile ormai inservibile: sedie con le gambe rotte; scànnoli spaccati; doghe di botti; vimini di damigiane; vardiceddre bucate, che insieme a qualche fascio di lèvene e a qualche ciòcchero sarebbero serviti per accendere lo ffuoco de la Madonna.

Il 7 settembre, prima che fosse sera, in ogni vicolo, nelle piazze, negli incroci delle strade, in un andirivieni frenetico, si portava fuori dalle case e si depositava in un unico mucchio tutto il materiale conservato nei giorni precedenti. Quando la catasta era sufficientemente alta e il buio era diventato fitto, da più parti si dava fuoco al falò. La gente del vicolo era ormai tutta vicina al fuoco, disposta in circolo, seduta sui gradini delle scale o delle case, sulle panche o sulle sedie.

Non ricordo canti o filastrocche che si cantassero e si dicessero in quella occasione: si guardava il fuoco e si parlava del fuoco, di quanto era alta la fiamma, di un pezzo di legna da spostare, della brace da raccogliere. Per tenerci fermi, qualche anziana signora ci raccontava dei cunti. Uno o più uomini, armati di rami nodosi, badavano a far ardere bene la legna, alzandola e attizzandola, mentre la fiamma si allungava sempre di più, illuminava e arrossava i loro visi e proiettava ombre gigantesche sui muri delle case vicine.

Si confrontava il proprio fuoco con quello degli altri vicoli e si provava orgoglio se quest’ultimo era più piccolo, invidia, invece, se era più grande. Per non essere da meno rispetto ai grandi, entravamo, allora, in gioco noi ragazzi. Di corsa raggiungevamo i luoghi dove più facilmente avremmo potuto trovare materiale da ardere (le botteghe dei falegnami, per esempio), perlustravamo tutti gli angoli delle case e delle strade e, se fortunati, tornavamo con il nostro pezzo di legno in mano, tenuto alto come un trofeo e ci guadagnavamo i complimenti di tutto il vicinato.

Noi ragazzi avevamo anche il compito di spie: dovevamo riferire al nostro gruppo, dopo una lunga, discreta e precisa osservazione, che ne era degli altri fuochi e che cosa accadeva intorno ad essi.

Frattanto le ore passavano e la fiamma, non più alimentata, si esauriva pian piano. Allora vedevamo uscire da sotto la cenere, come teneri frutti del fuoco, le patate dalla buccia bianca. Quanti "a me!, a me!" si gridavano in quel momento. Quando finalmente ricevevi – oh mani benedette! – la tua patata cocente, la passavi velocemente da una mano all’altra soffiandoci sopra, le toglievi la pelle bruciacchiata, la mordevi con ingordigia e ti scottavi la lingua e il palato.

E non finiva così. Tenuti prima lontani dal fuoco dallo sguardo vigile e dagli allucchi dei presenti, ora che la fiamma languiva e stava per spegnersi del tutto iniziava la gara di salto dei tizzoni. Uno dietro l’altro ci sfidavamo a chi faceva il salto più alto o più lungo, ora incitati, ora frenati dagli adulti. Non sapevamo allora che esprimendo un desiderio l’avremmo realizzato (come credono in Belgio, in Francia, in Norvegia e in Siria).

Allo spegnersi del falò si ritornava a casa: le vecchiette un poco strascicando un poco appoggiandosi alle sedie su cui erano state sedute; noi ragazzi commentando alcune fasi della bella festa ormai passata.

Se il focolare è il più chiaro simbolo della famiglia - fino all’altro ieri il termine "fuoco" indicava il nucleo familiare – i fuochi rappresentavano l’unità del vicinato, il momento più alto dell’aggregazione tra famiglie che vivevano porta a porta, che gioivano e pativano insieme. E’ un fatto che, da quando il vecchio centro del paese è stato abbandonato e la vita del vicolo è scomparsa, anche la tradizione dei fuochi è andata affievolendosi o è stata travisata (negli ultimi anni si sono visti ardere molti copertoni puzzolenti).

Per fortuna, i fuochi di un tempo riscaldano ancora i nostri petti e illuminano le nostre menti. Speriamo che sia lunga la notte e che l’alba spunti tardi a mostrarci i mucchietti di cenere fredda.

Madonna della Macchia di Buonalbergo- Statua lignea del sec.XII
 

 



 

 

 

 

 

 

làmmia: cantina
scànnoli
: sgabelli
vardiceddre:
canestri piani e lunghi
lèvene:
legna
ciòcchero:
ciocco
cunti:
racconti
allucchi
: grida

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